Cambia il vento dell’economia a Tokyo? Il 19 marzo, la Banca del Giappone (BoJ) ha impresso una svolta decisa alla gestione monetaria del Paese del Sol Levante, ponendo fine all’era dei tassi di interesse negativi e a un trend ribassista del costo del denaro che durava dai tempi della Grande Recessione. La BoJ si è mossa aumentando i costi di finanziamento per la prima volta dal 2007. Viene così archiviata, forse definitivamente, la strategia della Abenomics promossa dal leader più iconico del Paese, l’ex premier Shinzo Abe assassinato a Tokyo due anni fa,.

La svolta della Banca del Giappone

Il governatore della BoJ, Kazuo Ueda, ha deciso di iniziare a far cadere il più simbolico caposaldo di una strategia di politica monetaria ultra-espansiva che Tokyo ha perseguito anche nell’ultimo biennio di ritorno dell’inflazione su scala globale e di aumento dei tassi di interesse. Il tasso d’interesse sarà ora compreso tra lo 0 e lo 0,1%. Dal 2007 al 2016 il tasso era stato portato dallo 0,5% allo 0 in una serie di tagli, per poi andare in territorio negativo negli ultimi anni, al -0,1%.

L’obiettivo della BoJ e del governo era far sì che portare a zero il costo del denaro avrebbe reso forte e competitivo il sistema del credito verso privati e imprese, riportando il Giappone fuori dal più che ventennale ristagno della sua produttività e della sua crescita e permettendo a Tokyo di rispondere alle crisi globali. Il gigantesco piano di ampliamento della base monetaria, un “quantitative easing” à la Draghi su scala temporale di durata doppia, nella speranza di Abe e della BoJ avrebbe dovuto essere la chiave per il ritorno di Tokyo tra i motori dell’economia globale.

I numeri dell’epoca dei tassi bassi

Sul tema InsideOver ha raccolto l’opinione di Gabriel Debach, Market Analyst di eToro, che ha ricordato le dinamiche dell’economia giapponese in questi diciassette anni: “Durante questo periodo, l’inflazione complessiva è stata in media dello 0,61%, mentre la crescita del PIL è stata piuttosto modesta, con una media dello 0,13%. Questi tassi di crescita relativamente bassi possono essere interpretati come una sfida per l’economia giapponese nel generare una crescita sostenibile. Parallelamente, il debito pubblico lordo del Giappone, in rapporto al PIL, è aumentato significativamente, salendo di 90 punti percentuali dal 173% al 263%”, nota l’analista.

“Inoltre, la quota di titoli di Stato detenuti dalla banca centrale è salita dal 10% al 48% nel corso di questi anni. Questo indica un maggiore coinvolgimento della Banca del Giappone nell’acquisto di titoli di stato, come parte delle sue politiche di stimolo monetario volte a sostenere l’economia e ad aumentare l’inflazione”, ragiona Debach.

Crescita quantitativa e crescita qualitativa

Se certamente l’analisi del lungo periodo mostra che il Giappone ha tassi di crescita non invidiabile, lo stato di salute del sistema nipponico non appare pregiudicato. Questo perché negli anni si è sdoganata la ricerca di una crescita qualitativa e una politica di assoluto controllo nazionale del debito che ne ha permesso l’accumulazione.

Dall’abbattimento in territorio negativo dei tassi fino al Covid-19 la crescita era tornata ad essere più robusta per quanto, ricordava anni fa l’Asia Development Bank in un report, “la recessione a lungo termine del Giappone sia dovuta a problemi strutturali che non possono essere risolti dall’attuale politica monetaria”, come l’incipiente questione del declino demografico.

La politica dei tassi di interesse negativi ha rafforzato il ruolo dei cittadini e delle aziende finanziarie giapponesi nel gestire il debito e promuovere lo sviluppo nazionale. Questo, insieme all’agenda economica di Abe e alle politiche tecnologiche incentrate sull’innovazione aperta, ha permesso al Giappone di resistere al declino.

Yen alla patria

La strategia dei bassi tassi di interesse ha sfruttato l’elevata propensione al risparmio dei giapponesi e il loro consolidato benessere per estendere in modo “patriottico” la copertura del debito e delle finanze nazionali attraverso gli investimenti dei cittadini. Questo approccio ha valorizzato nel tempo l’intervento della banca centrale per neutralizzare ogni possibile rischio sistemico relativo a moneta, inflazione e finanza. Tutto ciò mentre l’industria, dall’automobilistica alla tecnologica, non registrava livelli di crescita record come in Paesi come la Cina, ma difendeva le posizioni raggiunte e, quindi, la prosperità nazionale

In quest’ottica, l’indebolimento dello yen andato in scena dal 2023 ha stimolato un meccanismo in cui l’economia giapponese ha reagito strutturalmente all’indebolimento del potere d’acquisto e al passaggio dell’inflazione in territorio positivo (un modesto 1%, briciole rispetto ai dati europei) con l’aumento parallelo di salari e tassi d’interesse. Il Nikkei ricorda che “i maggiori datori di lavoro della nazione hanno concordato questo mese un aumento salariale del 5,28% con i principali sindacati, segnando il più grande aumento salariale degli ultimi 33 anni“.

Il Giappone resiste

Per molti anni, “sia le aziende che i sindacati avevano evitato di aumentare i salari in modo troppo aggressivo per paura di danneggiare la competitività aziendale”. Ma ora ci si ricorda che è doveroso difendere la base nazionale di ricchezza per alimentare il ciclo dei consumi e degli investimenti. Per un effetto-trascinamento è arrivato l’aumento dei tassi d’interesse e del costo del denaro. La combo tra salari in crescita e tassi negativi sarebbe stata difficilmente sostenibile in prospettiva, e Tokyo ha mandato un segnale.

Preparandosi, secondo il Financial Times, a portare i tassi allo 0,25% in autunno e a nuovi aumenti del 2025, nella speranza che non serva più tenere artificialmente sotto zero il costo del denaro per sostenere l’economia del Paese e, che anzi, in contesti di ritorno dell’inflazione sia necessario affidarsi a valorizzare la qualità della crescita dell’economia, della produzione industriale e dei redditi piuttosto che su un dato meramente quantitativo.

Per questo la BoJ ridurrà a 6 trilioni di yen (40 miliardi di dollari) le risorse dedicate ogni mese all’acquisto di titoli di stato giapponesi e interromperà gli investimenti in prodotti legati a fondi privati negoziati in Borsa per fare spazio a cittadini e privati.

I tassi, oggi un parametro come un altro

Non serve più dopare artificialmente il sistema: il Giappone forse è un po’ acciaccato ma resta in piedi. E serviva marcare una svolta per annunciarlo alle altre grandi economie. Il combinato disposto tra aumento dei salari e crescita dei tassi in territorio positivo, nelle scorse settimane, ha segnato il tanto atteso cambiamento.

Non è dunque invecchiata bene la profezia di chi vedeva il Giappone destinato a un declino simile a quello della Grecia ai tempi della Grande Recessione europea per le politiche su debito e tassi. Consolidato un modello (risparmio focalizzato sulla tutela delle finanze nazionali, ripresa della crescita dei salari, credito e investimenti avviati e non in affanno) il tasso d’interesse diventa un parametro come altri. E una svolta presentata come storica la logica conseguenza di un modello che, nonostante tutto, continua a tenere.

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